DE QUINCEY

CONFESSIONI DI UN FUMATORE D'OPPIO


1.

 Nell'esplorazione che l'uomo fa del mondo per adattarlo ai suoi bisogni occorre inserire di necessità anche la ricerca, la produzione e l'uso di droghe, vale a dire di sostanze atte ad indurre modificazioni dei suoi stati d'animo e di coscienza. Se si pone tra parentesi la demonizzazione degli stupefacenti che sta sopravvenendo nei paesi occidentali in conseguenza della cultura conservatrice e di destra, il fenomeno va affrontato con una certa oggettività.

Sostanze naturali psicoattive sono state utilizzate in tutti i tempi e presso tutte le culture note senza alcuna eccezione. Questo dato, da solo, attesta che l'uso di droghe corrisponde di fatto ad un bisogno universale che va interpretato. A riguardo si possono fare tre ipotesi. La prima fa capo al desiderio di sperimentare stati psichici piacevoli artificialmente; la seconda, alla motivazione di allargare i confini della coscienza in maniera tale da sormontare, in un certa misura, la barriera che isola la coscienza dall'inconscio; la terza, all'esigenza di attenuare l'ansia esistenziale, vale a dire la consapevolezza della finitezza, della precarietà e della vulnerabilità individuale.

Si tratta di motivazioni diverse che possono però facilmente sommarsi e interagire tra loro. Nessuna di esse si può ritenere in sé e per sé patologica, riconducendosi la prima all'umano bisogno di felicità, la seconda alla tendenza autoconoscitiva o, meglio, conoscitiva dell'apparato mentale nella sua complessità, la terza all'esigenza di allentare il carattere ansiogeno della consapevolezza esistenziale. Le droghe rappresentano indubbiamente delle scorciatoie in rapporto alla possibilità, intrinseca all'esperienza soggettiva, di raggiungere questi stessi obiettivi in maniera "naturale", vale a dire per effetto dell'introspezione, della riflessione, della meditazione, dell'educazione emozionale, degli affetti, degli interessi culturali, del contatto con la natura, ecc. Il problema è che la realizzazione per via naturale della felicità, dell'appagamento e della quiete interiore richiedono condizioni oggettive e strumenti culturali che non sono alla portata di tutti. E' inevitabile pertanto che quelle motivazioni, intrecciandosi con l'intera esperienza soggettiva nella misura in cui essa è alienata, possono facilmente complicarsi assumendo una configurazione patologica. Una condizione interiore dolorosa e indecifrabile, una struttura rigida e mistificata della coscienza, un'ansia esistenziale trppo intensa incrementano il bisogno appetitivo di droghe, portando il soggetto a minimizzare i loro effetti a lungo termine e a privilegiare quelli immediati.

Non fosse altro che per questo aspetto, le Confessioni di De Quincey mantengono inalterato il loro valore nel corso del tempo. Egli acutamente distingue l'uso occasionale e sporadico dell'oppio, che corrisponde ad una motivazione edonistica, autoconoscitiva e ansiolitica, da quello abituale, quotidiano che definisce viceversa la tossicodipendenza:

"Mi è stato chiesto spesso come mi sia accaduto di diventare un oppiomane abituale; e ho sofferto, molto ingiustamente, nell'opinione delle mie conoscenze, perché si riteneva che mi fossi tirato addosso tutte le sofferenze che dovrò raccontare, per essermi abbandonato da gran tempo a questa pratica solamente per il gusto di crearmi uno stato artificiale di piacevole eccitazione. Ma questa è una deformazione arbitraria del mio caso. Vero è che per circa dieci anni io presi l'oppio di quando in quando per amore del piacere squisito ch'esso mi dava: ma finché lo prendevo con questo scopo ero efficacemente protetto contro tutte le cattive conseguenze materiali, dalla necessità di far passare lunghi intervalli tra una volta e l'altra, se volevo che si rinnovassero le sensazioni piacevoli. Quando cominciai la prima volta a usare l'oppio come un articolo del mio regime giornaliero, non fu con lo scopo di crearmi un piacere, ma di lenire acutissimi dolori. Quando avevo ventotto anni ebbi un forte attacco di un penosissimo disturbo dello stomaco che avevo sperimentato la prima volta circa dieci anni prima. La causa di questo disturbo era stata in origine la gran fame che avevo sofferto da ragazzo. Durante la stagione di speranza e di piena felicità che venne dopo (cioè dai diciotto ai ventiquattro anni), esso aveva sonnecchiato: nei tre anni seguenti si era ridestato a intervalli, e ora grazie a circostanze sfavorevoli e al mio animo depresso, mi attaccava con una violenza che non cedeva ad altro rimedio che all'oppio."

Per quanto concerne l'uso occasionale e sporadico, egli poi non esita a sottolineare le straordinarie qualità dell'oppio:

"O giusto, misterioso e potente oppio che ai cuori dei poveri e dei ricchi, senza differenza, per le ferite insanabili e per le pene "che tentano lo spirito alla rivolta", porti un balsamo di pace! Oppio eloquente, che con la tua stringente retorica blandisci i propositi dell'ira: e al colpevole restituisci per una notte le speranze della gioventù, purificando le sue mani insanguinate; e all'orgoglioso un breve oblio "dei torti non riparati e degli insulti invendicati"; che chiami al tribunale dei sogni, per il trionfo dell'innocenza che soffre, le tue false testimonianze; e confondi gli spergiuri; e rovesci le sentenze dei cattivi giudici; tu susciti dal grembo delle tenebre, con le fantastiche immagini del cervello, templi e città che superano l'arte di Fidia e di Prassitele, superano gli splendori di Ecatompile e di Babilonia: e "dall'anarchia di un sonno pieno di sogni" chiami alla luce del sole i volti di beltà da gran tempo sepolte e le dilette sembianze dei familiari, purificate dal "disonore della tomba". Tu solo dai questi doni all'uomo, e tu hai le chiavi del Paradiso, o giusto, misterioso e potente oppio!"; "L'espansione dei sentimenti benigni che accompagna l'oppio non è un accesso febbrile, ma un salutare ritorno a quello stato che la mente ricupererebbe naturalmente quando si facesse piazza pulita di ogni profonda irritazione, cagionata dal dolore, che contrasta con gli impulsi d'un cuore originariamente giusto e buono, e li disturba."; "Chi prende l'oppio (mi riferisco a chi non soffre di alcun disturbo, od altro effetto remoto dell'oppio) sente il predominio della parte più divina della sua natura, sente cioè che gli effetti morali sono in uno stato d'intatta serenità, e su tutto si diffonde la grande, maestosa luce dell'intelletto. Questa è la dottrina ortodossa sull'argomento dell'oppio, la dottrina della chiesa di cui mi riconosco come l'unico membro, l'alfa e l'omega."

Il passaggio dall'uso voluttuario a quello "terapeutico" non è dunque una fatalità: essa interviene, nel caso di De Quincey, dopo alcuni anni in conseguenza di una condizione interiore di disagio psichico e psicosomatico grave che, data la preesistente esperienza, induce naturalmente il ricorso all'oppio come ad una magica medicina.

L'autore, che, per quanto dotato filosoficamente e intuitivo psicologicamente, scrive agli inizi dell'800, quando la psicoanalisi è ancora di là da venire, attribuisce l'avvio della sua esperienza di oppiomane al riprodursi, all'età di 28 anni, di una sintomatologia sperimentata già dieci anni prima: una contrazione spasmodica all'altezza dello stomaco dovuta, a suo avviso, alla memoria della fame prima patita.

In realtà, a 18 anni la sua esperienza è penosa, ma non solo per la fame. Rimasto orfano precocemente di padre e affidato a quattro tutori, egli si ritrova in un collegio ove scopre la sua precoce vocazione letteraria e filosofica. Preso atto che, nonostante sia erede di un piccolo patrimonio, i tutori non accondiscendono la sua scelta universitaria umanistica, a 17 anni decide, nell'attesa di giungere a disporre in prima persona dell'eredità, di sottrarsi al loro controllo, di fuggire dal collegio e di andare a Londra. Senza alcun mezzo di sostegno, egli scopre l'asprezza della città già investita, da tempo, da un processo di sviluppo capitalistico squilibrato: non si può negare - egli scrive - che l'aspetto e la struttura esterna della società londinese siano duri, crudeli e repellenti. Senza mezzi di sostentamento, si ritrova intruppato tra le file degli emarginati: divide il freddo e la fame con una miserabile bambina, ospite e serva di un uomo piuttosto losco; entra in un rapporto affettivo, peraltro casto, con Ann, una prostituta d'infimo bordo che nei suoi confronti ha un atteggiamento tenero e materno. E' in siffatte circostanze che si presenta per la prima volta il disturbo:

"Il sonno mi tormentava più della veglia, perché a parte la tumultuosità dei miei sogni, che erano solo un po' meno terribili di quelli prodotti dall'oppio, che descriverò in seguito, il mio sonno non fu mai più di quello che si chiama "sonno agitato", cosicché io potevo sentire i miei stessi gemiti; e spesso la mia stessa voce, così mi pareva, mi destava improvvisamente; e press'a poco in quel tempo cominciò a perseguitarmi, non appena mi assopivo, un'orribile sensazione che mi è poi tornata in periodi differenti della mia vita, cioè una specie di contrazione spasmodica, non so dove, ma apparentemente intorno alla regione dello stomaco, che mi costringeva ad agitare violentemente i piedi per cercar di alleviarla. Sopraggiungendo questa sensazione non appena mi addormentavo, e lo sforzo di alleviarla destandomi continuamente, alla fine dormivo solo per esaurimento; e per la debolezza che aumentava di giorno in giorno, come dissi prima, mi addormentavo continuamente e continuamente mi svegliavo."

E' evidente che il dolore non è riconducibile solo alla fame, ma ad un nodo d'angoscia impastato di solitudine, abbandono, precarietà, paura del futuro, ecc. Il problema è capire perché esso si ripresenta dieci anni dopo, quando, grazie all'eredità e alla pratica intellettuale, le condizioni di vita di Quincey sono radicalmente mutate.

L'esperienza di emarginazione si risolve per un concorso di circostanze fortuite, in seguito alle quali Quincey può abbandonare Londra e dedicarsi agli studi amati. Ma la durezza di essa ha inciso profondamente nella sua anima. Accomiatandosi dalla città londinese, egli scrive: "Così dunque, Oxford Street, matrigna dal cuore di pietra, tu che ascolti i sospiri degli orfani e bevi le lacrime dei bambini, alla fine fui allontanato da te! Era finito una buona volta il tempo delle mie passeggiate interminabili sui tuoi marciapiedi, non più avrei sognato per svegliarmi in preda allo strazio della fame. Altri, troppi altri senza dubbio, dopo di me e di Ann hanno percorso lo stesso cammino... eredi delle nostre sciagure. Altri orfani hanno sospirato dopo Ann, altri bambini hanno versato lacrime: e tu, Oxford Street, dopo d'allora, hai senza dubbio echeggiato dei gemiti d'innumerevoli cuori."

E' consapevole peraltro che il cambiamento di vita non ha annullato né il dolore di quella esperienza né la consapevolezza di infiniti esseri meno fortunati di lui (tra cui la bambina con cui ha diviso la fame e la solitudine e Ann), destinati a soccombere all'infausta sorte. In conseguenza di questo "anni ch'erano ben lontani tra loro furono collegati da sottili legami di dolore provenienti da una radice comune."

Di più non è dato sapere, ma questo forse basta a capire che il ripresentarsi del dolore addominale dopo dieci anni è l'indizio di ferite che non si sono cicatrizzate e del ricordo di esseri cari che, presumibilmente, sono finiti male. A riguardo, è assolutamente commovente la considerazione sulla povera Ann: "Per alcuni anni sperai che fosse viva, e credo che, nel senso letterale e non retorico della parola "miracolo", posso dire di aver guardato molte, molte miriadi di facce femminili, nelle mie varie visite a Londra, con la speranza d'incontrarla. La riconoscerci tra mille, se la vedessi per un momento; poiché, per quanto non bella, aveva un'espressione dolce, e un modo particolarmente grazioso di portare il capo... Ho detto che la cercai con speranza: è stato così per anni e anni, ma ora avrei paura di vederla, e la sua tosse, che mi addolorava quando ci separammo, è ora la mia consolazione. Ora desidero non vederla più, ma penso a lei con maggior serenità, come a chi da tempo è nella tomba. Nella tomba, vorrei sperare, di una Maddalena pentita, scomparsa prima che gli affronti e la crudeltà cancellassero e trasfigurassero la sua natura innocente, o prima che le brutalità e i mascalzoni compissero la rovina che avevano iniziato."

2.

Per dieci anni, l'uso sporadico dell'oppio come anestetizzate e psicostimolante funziona a meraviglia. De Quincey ne descrive gli effetti dopo la prima assunzione in questi termini: "Arrivato al mio alloggio, ci s'immagina facilmente che non indugiai un momento a prendere la quantità prescritta. Ignoravo per forza tutta l'arte, tutto il mistero dell'oppio: non sapevo come si prendesse: e quello ch'io presi, lo presi in condizioni assolutamente sfavorevoli. Ma lo presi: e dopo un'ora, o cieli! Che rivoluzione! Come si sollevò, dalle più basse profondità, il mio spirito più intimo! Che apocalisse di tutto il mondo, dentro di me! Che le mie pene fossero svanite, era una cosa da niente, ora, per me: questo effetto negativo era inghiottito dall'immensità di quegli effetti positivi che si erano aperti innanzi a me, dall'abisso di gioie divine che mi si rivelavano così improvvisamente. Questa era una panacea, un farmaxon nehpentes per tutti i mali dell'umanità: questo era, scoperto a un tratto, il segreto della felicità, sul quale i filosofi avevano discusso per tanti secoli: la felicità si poteva ora comperare per pochi soldi, e portarla nel taschino del panciotto: si potevano far tappare in una bottiglia da un litro dei tesori di estasi portatili: e la pace del cuore si poteva spedire in barili; per posta."

En passant, è importante rilevare che, all'epoca, l'uso anestetizzante dell'oppio non riguardava solo singoli individui appartenenti a ceti agiati, ma le misere masse proletarie. Quincey scrive: "Qualche anno fa, passando per Manchester, fui informato da alcuni industriali del cotone che i loro operai stavano prendendo rapidamente l'abitudine dell'oppio, tanto che il sabato pomeriggio i banchi dei droghieri erano cosparsi di pillole da uno, due o tre grani, pronte per le ben note richieste della sera. La causa immediata di ciò era il basso livello dei salari, che a quel tempo non avrebbe permesso di darsi alla birra o all'alcool: e si poteva pensare che con l'aumento dei salari quell'abitudine sarebbe cessata."

Ma un siffatto uso comporta i suoi pericoli. Nell'illustrazione di questi, Quincey è straordinariamente accurato e preciso. Avendo deciso di rendere pubblica la sua schiavitù e la lotta per liberarsene, egli rivendica anzitutto il carattere di necessità che lo ha portato alla tossicodipendenza: "Questo dunque - ripeto - do per dimostrato: che al tempo in cui cominciai a prender l'oppio tutti i giorni, non avrei potuto far diversamente. Se poi, a dire il vero, in seguito non sarei potuto riuscire a romper l'abitudine, anche quando mi sembrava che tutti gli sforzi sarebbero stati vani; e se molti degli innumerevoli sforzi che davvero feci non avrei potuto spingerli molto più in là, e le mie graduali riconquiste del terreno perduto non avrei potuto sfruttarle molto più energicamente... queste sono domande che debbo respingere. Forse potrei tentare di dimostrare che avevo delle circostanze attenuanti, ma devo parlar chiaro? Confesso che è una delle mie più gravi debolezze, ma sono troppo "eudemonista": ho troppo desiderio di uno stato di felicità, così per me come per gli altri; non posso guardare in faccia l'infelicità con un cuore abbastanza saldo, e sono ben poco capace di affrontare un dolore oggi, per avere diritto a un vantaggio domani."

In conseguenza di questo, egli non si ritiene colpevole: "L'infermità e la miseria non significano di necessità una colpa. Esse si avvicinano o si allontanano dalle ombre di quella oscura compagnia, in proporzione dei motivi probabili e delle probabili intenzioni dell'imputato, e delle attenuanti conosciute o segrete, del delitto: e secondo che le tentazioni furono forti dal principio, e la resistenza, come atto o come sforzo, fu sincera fino alla fine. Per parte mia, senza venir meno alla verità o alla modestia, posso affermare che la mia vita è stata nell'insieme la vita di un filosofo: fin dalla nascita sono stato una creatura intellettuale, e intellettuali nel più alto senso sono state le mie occupazioni e i miei piaceri fin dai miei giorni di scuola. Se il prender oppio è un piacere sensuale, e se son disposto a confessare di essermivi abbandonato fino a un punto non ancora registrato per nessun altro uomo, non è men vero che ho lottato contro questa affascinante schiavitù con uno zelo religioso, e ho compiuto alla fine ciò che non ho mai sentito attribuire a nessun altro uomo; mi sono sciolto, fin quasi agli ultimi anelli, dalla maledetta catena che mi legava. È ragionevole considerare che una simile vittoria su se stesso possa controbilanciare ogni genere, ogni grado di debolezza."; "non mi riconosco nessuna colpa: ed anche se me la riconoscessi, può darsi che mi risolverei lo stesso al presente atto di confessione, in considerazione del servizio che con esso posso rendere all'intera classe degli oppiomani."

Il servizio che De Quincey intende rendere si fonda sulla descrizione della dipendenza, dell'assuefazione e degli effetti a lungo termine di un uso quotidiano protratto dell'oppio:

Mi rivolgo a quelli che ne sanno qualcosa e domando se non si verifica sempre che fino a un certo punto si può ridurre la dose facilmente e anche con piacere, ma dopo quel punto una riduzione maggiore provoca intense sofferenze. Sì, dicono molte persone che parlano senza riflettere, avrete da soffrire un po' di cattivo umore e di abbattimento per qualche giorno. Rispondo di no: non c'è nulla che somigli al cattivo umore, anzi gli spiriti propriamente animali sono eccezionalmente sollevati: il polso migliora, la salute fa progressi. Non è qui che sta la sofferenza. Non ha nessuna somiglianza con quella prodotta dalla rinunzia al vino. È uno stato d'indicibile irritazione dello stomaco (il che certo non somiglia molto all'abbattimento), accompagnato da abbondanti sudori, e da sensazioni che non mi proverò a descrivere senza maggior spazio a mia disposizione."

"L'oppiomane non perde nulla della sua sensibilità morale o delle sue aspirazioni: egli desidera e brama, ardentemente come non mai, di realizzare ciò che crede possibile, ciò che il dovere comanda; ma la sua capacità intellettuale di comprendere ciò che è possibile, supera infinitamente non solo la sua possibilità di eseguire, ma anche semplicemente di tentare. Egli giace sotto il peso degli incubi e delle visioni, giace in vista di tutto ciò che volentieri compirebbe, proprio come uno che sia obbligato al letto dal languore mortale di una malattia che lo annienta, e debba assistere alle ingiurie e ai maltrattamenti inflitti a qualcuno ch'egli ami teneramente: egli maledice le forze maligne che gli impediscono di muoversi, darebbe la vita solo per potersi alzare e camminare, ma è impotente come un bambino e non può nemmeno tentare di alzarsi."

"Poiché questo, e tutti gli altri cambiamenti avvenuti nei miei sogni, furono accompagnati da una profonda ansietà e da una nera malinconia, che non si possono assolutamente esprimere a parole. Mi sembrava ogni notte di scendere, non metaforicamente, ma di scendere letteralmente, in voragini e abissi senza sole, sempre più giù, fino a una profondità dalla quale mi sembrava di non poter più sperare di risalire. Né, svegliandomi, avevo poi l'impressione d'essere risalito davvero. Su questo non insisto, perché lo stato di disperazione che accompagnava quei grandiosi spettacoli giungeva, come minimo, a una totale assenza di luce, come in certi casi di scoramento suicida, e non lo si può descrivere a parole, nemmeno lontanamente."

"E poi venne un cambiamento terribile, che svolgendosi lentamente come una pergamena, di mese in mese, mi faceva temere un tormento duraturo: e infatti non mi lasciò mai, fino alla conclusione del mio caso. Fin qui il volto umano si era mischiato spesso ai miei sogni, ma non dispoticamente, né con alcun potere speciale di tormentarmi. Ma ora cominciò a manifestarsi quella che io ho chiamata "la tirannia del volto umano". Forse potevo trovarne la ragione in qualche parte della mia vita londinese. Comunque, fu a questo punto che sopra le ondeggianti acque dell'oceano cominciò ad apparire il volto umano: il mare sembrava una distesa di volti innumerevoli, levati al cielo: imploranti, rabbiosi, disperati, si alzavano in ondate a migliaia, a miriadi, intere generazioni, secoli e secoli... Infinito era il mio turbamento... la mia mente vacillava... ondeggiava selvaggia come l'oceano"; Su tutte quelle forme, quelle minacce, quelle punizioni, quelle prigioni oscure e segrete, gravava un senso di eternità e d'infinito che a poco a poco mi opprimeva come una pazzia. Era soltanto in questi sogni, salvo una o due piccole eccezioni, che si mischiava qualche circostanza di orrore fisico: prima non avevo provato che terrori morali e spirituali. Ma qui i protagonisti erano uccellacci, o serpenti, o coccodrilli, specialmente questi ultimi. L'orrore che provavo per il maledetto coccodrillo giunse a superare da solo quasi tutto il resto. Ero costretto a viverci insieme, e come quasi sempre accadeva nei miei sogni, per secoli."

La lotta di liberazione dalla droga, che De Quincey intraprende da solo, è durissima. Egli descrive in maniera perfetta l'ostacolo dell'astinenza, esperimento a cui si sottopone nella certezza di essere, altimenti, destinato ad una morte precoce:

"I sintomi che accompagnavano il mio caso nelle prime sei settimane dell'esperimento erano questi: enorme irritabilità ed eccitazione di tutto l'organismo; la vitalità e la sensibilità dello stomaco, in particolare, erano tornate in pieno, ma spesso tra grandi dolori, continua inquietudine, giorno e notte; il sonno, quasi non sapevo cosa fosse: tre ore su ventiquattro era il massimo che ne potessi avere, e ancora era un sonno così agitato e leggero che sentivo ogni rumore; la mascella inferiore sempre gonfia; la bocca piena di ulcere; e molti altri sintomi penosi che sarebbe noioso ripetere, tra i quali tuttavia devo ricordarne uno, perché non aveva mai mancato di accompagnare ogni tentativo di liberarmi dall'oppio, e cioè dei violenti starnuti. Questo disturbo ora diventò oltremodo fastidioso: talvolta durava due ore di seguito, e capitava almeno due o tre volte al giorno."

Nonostante de Quincey affermi nel testo di avere trionfato sulla droga e di avere sciolte le catene che lo tenevano avvinghiato ad essa, nel postcriptum il bilancio è più critico: di fatto egli è riuscito a ridurre al minimo le dosi che assume. Lo ritiene comunque un grande successo, anche se avverte lucidamente che l'organismo è stato minato irreversibilmente dalla lunga esperienza di tossicodipendente.

3.

Che senso ha leggere oggi le Confessioni di De Quincey? Un senso possibile sta nel valutare la sostanziale irragionevolezza della legislazione italiana, che criminalizza i drogati, e nel prendere atto che, dato che al peggio non c'è mai fine, il Dipartimento per la lotta contro le droghe che si sta istituendo sotto l'egida del governo di centro-destra con tre rappresentanti di AN univocamente schierati a favore della repressione del fenomeno è destinato a fare un buco nell'acqua. L'uomo è esposto al rischio di cadere nella trappola della droga per la sua stessa intrinseca complessità. Proteggerlo da questa trappola implica una programmazione sociale di ampio respiro che dia ad ogni individuo, soprattutto in età giovanile, la possibilità di soddisfare i tre bisogni di cui ho parlato all'inizio con strumenti naturali, cioè riferiti alla seconda natura dell'uomo che è la cultura. Anche la programmazione e l'organizzazione sociale più avanzata non potranno mai del tutto scongiurare il pericolo della tossicodipendenza e reprimere l'appetizione per le droghe..

Con questo pericolo si tratterà di convivere, fermo restando che chi sviluppa una tossicodipendenza va considerato già di per sé sufficientemente umiliato e danneggiato perché lo Stato aggiunga a ciò la repressione, la criminalizzazione e la punizione sotto forma di trattamento sanitario obbligatorio.

De Quincey, confessando senza remore la sua esperienza di fumatore d'oppio, sottolinea il fatto di non essere e di non sentirsi colpevole. Per affrontare il problema della droga nel mondo contemporaneo, occorrerebbe capire più e giudicare meno.

Ottobre 2004